Vivere in piedi

Spettacolo teatrale in programma al Polo del Novecento, venerdì 1 giugno alle ore 21. Con Fabio Liberatore, Tiziana Rubano, Emanuela Sarzotti, Patrizia Spadaro. Regia di Alberto Barbi.

Un bello spettacolo, un’opera d’arte compiuta. Ricca di significati. Partiamo dal rapporto con la storia. Vivere in piedi racconta la vita di Teresa Noce. Questa donna fu molte cose nella sua vita, scolara diligente, stiratrice, sartina, militante comunista, giornalista, prigioniera nei campi di concentramento tedeschi, dirigente politica e sindacale, parlamentare. Scrisse le sue memorie in due modi: in forma di romanzo o di biografia vera e propria, narrata in prima persona. Il testo dello spettacolo si basa sui tre volumi delle memorie.

Essere comunisti una volta significava fare la storia, o almeno sentirsi coinvolti in una impresa di grande portata storica. Poi è venuto il tempo della dannazione, secondo un’idea diffusa. Del comunismo non si parlava più tanto, se non in circoli ristretti. E, quando se ne parlava, molte volte a prevalere era una sorta di omaggio vuoto.

Quel tempo per uno spettacolo come questo sembra appartenere al passato. Ecco, a mio parere, il primo elemento significativo dell’opera teatrale. “La storia siamo noi”, cantava Francesco De Gregori nel 1985. Una quindicina di anni prima il poeta Montale aveva invece dato prova di un notevole disicanto: “La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C’è chi sopravvive” – aveva scritto. “Vivere in piedi” si colloca a metà strada tra queste due affermazioni. La vicenda di Teresa Noce si svolge quasi nell’ombra, altri sono i personaggi in primo piano sul palcoscenico della storia, si chiamino essi Palmiro Togliatti o Luigi Longo (come dire il marito di lei). Eppure Teresa fa a suo modo la storia. E’ questo il taglio nuovo. Che ridà voce a tutto un popolo finito nell’ombra dopo l’89. Quel popolo ha una fierezza che è sopravvissuta alla tempeste della storia. Questo è uno tra i messaggi impliciti dello spettacolo.

C’è poi – c’è stato soprattutto – un certo modo di raccontare quella storia oscura. I protagonisti non mantengono solo la loro dignità, non danno solo prova di solidarietà e di fratellanza umana. Diventano uomini e donne tutti d’un pezzo, ammirevoli, lisci come il marmo, senza difetti e senza umane debolezze. Lo spettacolo prende le distanze da una impostazione simile facendo posto all’umano troppo umano. Accanto a Teresa ci sono le tre Parche, pronte a offrire una versione grottesca, o lacrimevole, o buffa, degli stessi avvenimenti. Il ruolo corrisponde a quello tenuto, nella grande letteratura o nell’opera, da personaggi come Sancio Panza o Sganarello. La controfigura meschina e piatta dell’eroe. Questo è un secondo elemento significativo dello spettacolo. Si passa dal monologo alla polifonia, con una sorta di tuffo vigoroso nella realtà della vita vissuta dalla gente comune.

Ci sono infine cose che hanno un rilievo minore, ma non del tutto trascurabile. La torinesità, che ha uno dei suoi punti più alti nel richiamo nostalgico alla nebbia di Mirafiori. L’effetto di straniamento prodotto dall’oscillazione tra il racconto più solenne e il controcanto inaspettato, “altro”. La musica che irrompe spesso rendendo tutto meno episodico e lontano. Anche quando è la voce roca di Edith Piaf a evocare un mondo popolare intessuto di passioni tragiche. Teresa Noce da piccola avrebbe voluto fare la maestra. A giudicare dallo spettacolo c’è riuscita. Il rischio era quello di trasformare gli spettatori in allievi mal disposti a lasciarsi imbonire. Sulla scena il popolo si mostra impertinente a ragione e a torto. L’umano troppo umano ritrova la sua parte, per il più grande piacere di tutti.

 

 

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