di Lorenzo Gianotti
Lo “Sciopero delle lancette”, che nel marzo-aprile 1920 investì la Fiat, è una rappresentazione singolare delle esperienze del proletariato subalpino del primo dopoguerra. Visto con gli occhi dei contemporanei, uno sciopero contro l’ora legale in fabbrica appare un reperto stravagante di tempi lontani. Eppure così non è.
E’ ormai costume abituale giudicare le vicende politiche del secolo scorso in maniera sommaria. Il Novecento è stato la palestra del conflitto tra capitalismo e comunismo o, nella versione più radicale, tra democrazia e totalitarismo, tutto ciò che non rientra in questa visione dicotomica è marginale, ininfluente. Così si cancellano eventi, enomeni che hanno invece costituito un tratto rilevante del corso della coscienza sociale, come l’affermarsi di un movimento operaio che illustrava i progressi dell’emancipazione materiale e culturale del lavoro salariato.
Nella prefazione alla riedizione di Il secolo breve di Eric Hobsbawm, Serge Halimi, direttore di Le Monde diplomatique, scrive che l’anticomunismo vorrebbe accreditare un ritratto del movimento, dei lavoratori, associandolo “più volentieri all’arcipelago Gulag e al Patto germano-sovietico” che all’opera di milioni di militanti che hanno dedicato la vita agli ideali della giustizia e del socialismo 1 . E’ invece stata un’epopea di uomini e donne di quella classe operaia che, scriveva Antonio Gramsci, “si è identificata con la fabbrica, si è identificata con la produzione: il proletario non può vivere senza lavorare, e senza lavorare metodicamente e ordinatamente. La divisione del lavoro ha creato l’unità psicologica della classe proletaria, ha creato nel mondo proletario quel corpo di sentimenti, di istinti, di pensieri, di costumi, di abitudini, di affetti che si riassumono nell’espressione: solidarietà di classe 2 “
Lo “sciopero delle lancette” è un episodio della storia per l’emancipazione della classe operaia, è una risposta al padronato che deliberava su ogni aspetto della vita di fabbrica senza che chi ci lavora potesse intervenire. Occorre peraltro tener presente che erano appena passati diciotto mesi dalla fine del primo conflitto mondiale, nelle cui trincee le classi dirigenti del paese sacrificarono la vita di centinaia di migliaia di operai e contadini chiamati alle armi.
Questo sciopero era anche espressione ad una tendenza alla riorganizzazione del movimento propugnata dal gruppo torinese di L’Ordine Nuovo che aveva al suo centro il superamento delle Commissioni interne con i Consigli di fabbrica e incontrava, come lo stesso sciopero, il dissenso dei vertici del Psi e della Cgl. Mentre le Commissioni interne erano costituite da lavoratori indicati dal sindacato di categoria, la Fiom,, convalidati da assemblee di soli iscritti, nei Consigli di fabbrica doveva essere eletto “un delegato ogni quindici operai divisi per categoria… arrivando… a un comitato di delegati di fabbrica che comprenda rappresentanti di tutto il complesso del lavoro (operai, impiegati, tecnici)”, scrivevano Gramsci e Togliatti 3 . Il movimento dei Consigli ebbe un rapido sviluppo. Iniziata alla Fiat Brevetti (circa 2.000 dipendenti), l’elezione dei delegati, reparto per reparto, continuò alla Fiat Centro, alla Savigliano, alla Lancia; nella primavera del 1920 a Torino avvenne in centinaia di stabilimenti con 150.000 dipendenti circa.
Significativo delle divisioni interne del Psi e della Cgl fu il modo con cui si concluse lo “sciopero delle lancette”: con un referendum promosso dalla Fiom tra le maestranze degli stabilimenti interessati, dove 5.397 a favore della continuazione e 6.191 contro. Ma non era una resa, A giugno 1920 si aprì la trattativa per il nuovo contratto di lavoro: gli industriali respinsero le richieste sindacali, iniziarono gli scioperi e gli industriali minacciarono la serrata. Allora i Consigli di fabbrica decisero l’occupazione degli stabilimenti, che venivano presidiati dagli operai armati sotto le bandiere rosse sventolanti sui cancelli. Il 19 settembre Giovanni Agnelli incontrava a Porta Nuova il deputato socialista Giuseppe Romita, proponendogli la trasformazione della Fiat in cooperativa dei dipendenti Per quanto di tattico vi fosse in quella proposta, attestava in ogni caso un riconoscimento della maturità dell’organizzazione dei lavoratori. D’altra parte non sarebbe stata una scommessa sul vuoto. A Torino era sorta e si era sviluppata entro il movimento socialista la più grande cooperativa italiana, l’Alleanza cooperativa torinese (ACT), che, sia pure non in campo industriale ma in quello della distribuzione, aveva dimostrato ampie capacità amministrative, gestionali
Naturalmente la proposta di Agnelli suscitò ampie discussioni, le critiche più aspre provennero dall’associazione industriale. L’occupazione delle fabbriche cessò il 29 settembre con il raggiungimento dell’accordo contrattuale tra le parti. E della cooperativa non si parlò più.
1 Serge Halimi, Préface à L’ére des extremes, Ed. Agone, Paris, 2020. E’ apparsa anche su Le Monde diplomatique di aprile 2020
2 Antonio Gramsci, in Scritti politici, l’Unità, 1967, vol. I, p. 303. E’ un articolo apparso su L’Ordine Nuovo, 21 febbraio 1920.
3 Antonio Gramsci, in Scritti politici, l’Unità, cit., p. 208. E’ un articolo apparso su L’Ordine Nuovo, 21 giugno 1919.