Il disprezzo per la vita

Julia Kristeva
Hannah Arendt
La vita, le parole
Donzelli, Roma 2005
Traduzione di Monica Guerra

… Più ancora, però, il tema della vita guida il suo pensiero in tutti i suoi scritti, nella disamina sia della storia politica sia di quella della metafisica, anche se da un’occorrenza all’altra, comparendo così spesso, si affina e si cesella. Il pensiero della Arendt lo sottende quando l’autrice stabilisce con grande coraggio intellettuale — quanto contestato! — che nazismo e stalinismo sono le due facce di un medesimo orrore, il totalitarismo, perché convergono nella stessa negazione della vita umana. Sotto la spinta del progresso tecnologico a partire dalla prima guerra mondiale, il disprezzo che distrugge la vita, già noto in altre civiltà, raggiunge un livello di parossismo fino ad allora sconosciuto: mossi a monte da quella medesima negazione, ma in una maniera diversa, i due totalitarismi si ritrovano nel fenomeno concentrazionario. Hannah Arendt scrive dunque: «il senso della superfluità degli uomini, tipico delle masse (e assolutamente nuovo in Europa, un fenomeno associato alla disoccupazione generale e all’incremento demografico degli ultimi centocinquant’anni) ha dominato per secoli incontrastato [nei paesi del tradizionale dispotismo orientale] nel disprezzo della vita umana». O ancora: «La vecchia massima secondo cui i poveri e gli oppressi non avevano nulla da perdere all’infuori delle loro catene non si applicava più a questi uomini, che avevano perso ben più delle catene della miseria quando avevano smarrito l’interesse per se stessi: era venuta meno la fonte delle ansie e delle preoccupazioni che rendono la vita umana penosa e tormentata. In confronto del loro non materialistico distacco dal mondo, il monaco cristiano faceva la figura dell’uomo assorbito dagli affari terreni».
Questo tono grave, in cui la rabbia si colora d’ironia, tradisce un’ansietà dagli accenti talvolta apocalittici, quando la Arendt diagnostica che il «male radicale» risiede nella «volontà perversa», nel senso di Kant, di rendere gli «uomini superflui»: in altre parole, l’uomo del totalitarismo, passato e latente, distrugge la vita umana dopo avere abolito il senso di ogni vita, compresa la propria. Peggio ancora, questa «superfluità» della vita umana, che la studiosa di storia insiste nell’individuare nel successo dell’imperialismo, non scompare — tutt’altro — nelle democrazie moderne invase dall’automazione: «possiamo dire che il male radicale è comparso nel contesto di un sistema in cui tutti gli uomini sono diventati ugualmente superflui. I governanti totalitari sono convinti della propria superfluità non meno di quella altrui; e i carnefici sono così pericolosi perché gli è indifferente vivere o morire, esser nati o non avere mai visto la luce. Il pericolo delle invenzioni totalitarie è che oggi, con la popolazione e lo sradicamento in rapido aumento dovunque, intere masse di uomini sono di continuo rese superflue nel senso della terminologia utilitaristica. È come se le tendenze politiche, sociali ed economiche dell’epoca congiurassero segretamente con gli strumenti escogitati per maneggiare gli uomini come cose superflue».

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