Il lusso e la mano invisibile

Alessandro Casiccia, Segni dell’esclusione. Patrimoni, lusso, diseguaglianza crescente, Accademia University Press, La Biblioteca di Historia Magistra, Torino 2016

Il lusso era stato considerato un vizio dai rigoristi austeri (Rousseau fra questi), che lo avrebbero voluto bandire quale dispendio socialmente dannoso. Sostanzialmente era considerato un vizio anche dai precursori della scienza economica moderna; i quali però (come nel caso di Mandeville), lo ritenevano fonte indiretta di pubblici benefici.

Mandeville prefigurava non solo la mano invisibile di Smith ma – in una paradossale sintonia con l’opposto modello puritano – anticipava alcune scuole di pensiero sviluppatesi poi lungo il Novecento, come l’eterogenesi dei fini di Weber o l’ordine spontaneo di Hayek. Comunque, in modo meno provocatorio di Mandeville, altri precursori settecenteschi della scienza economica classica, ad esempio Genovesi, o Turgot, avevano continuato a discettare sugli effetti positivi del lusso.

Giovanni Damele, La città delle api, Il Foglio, 31 maggio 2014

Quella di Mandeville non è certamente una critica della virtù o un elogio del vizio. Al contrario: Mandeville ammette che è più facile per i singoli individui vivere felici in una società virtuosa e frugale. Tuttavia, egli non si poneva dal punto di vista del moralista, ma da quello del fisiologo ippocratico, alla ricerca di un possibile equilibrio tra gli umori della società. Tra i vizi privati e i benefici pubblici non c’è incoerenza: gli uni non escludono gli altri, anzi, li implicano. Al lusso si deve prosperità economica, mentre il denaro circola anche grazie alle trame dei peggiori furfanti e quel che alcuni chiamano “spreco” può dar lavoro a moltitudini di poveri. Non dal punto di vista del singolo va osservata la società, ma da quello dell’insieme e dei suoi equilibri, proprio come l’alveare, nel quale “ogni parte era piena di vizio / ma il tutto era un paradiso”. Visto da questa prospettiva, “anche il peggiore dell’intera moltitudine / faceva qualcosa per il bene comune”.
A questo punto, occorre smentire un secondo luogo comune sulla Favola: non solo Mandeville non difendeva il vizio, ma neppure pensava che l’equilibrio tra vizi privati e pubblici benefici potesse essere raggiunto spontaneamente. Occorre un intervento esterno per mettere in equilibrio gli umori della società, così come faceva il medico con il paziente somministrando, volta a volta, un salasso, un emetico o un diuretico. Non si deve lasciar correre né ignorare la differenza tra vizio e virtù. L’allegoria non dice che non si debbano colpire i vizi. Al contrario: i vizi vanno scoraggiati, i furfanti perseguiti. Su questo, Mandeville è chiaro: “stabilisco come primo principio che in tutte le società, grandi o piccole, è dovere di ogni membro di essere buono, che la virtù deve essere incoraggiata, il vizio disapprovato, le leggi obbedite e tutti i trasgressori puniti”. E l’intervento del potere pubblico è richiesto tanto per incoraggiare le passioni, fonte di prosperità, quanto per “sopperire ai difetti della società e occuparsi prima di tutto di ciò che è trascurato dai privati”. Per questo, chiudendo Una ricerca sull’origine della virtù morale = An Enquiry into the Origin of Moral Virtue (aggiunta alla terza edizione, del 1723), Mandeville precisa la sua massima: i vizi privati, attraverso l’accorta amministrazione di un abile politico, possono divenire pubblici benefici.
Con il suo trattato, Mandeville compiva così un doppio smascheramento. Il primo riguarda le teorie sulla morale. La morale non è, in fin dei conti, che un artificio pensato dai primi governanti per convincere gli uomini a vivere in società, facendo leva sulle passioni dell’onore e dell’orgoglio. Alla sua base non c’è qualcosa come un “sentimento morale”, ma vi sono sempre le passioni. Ciò non significa che la morale non serva. Quella di Mandeville è, anzitutto, una teoria sull’origine della morale. Una volta diffuse, le norme morali sono essenziali a reggere le società, al punto che lo stesso Mandeville sostiene una teoria rigorista della morale, secondo la quale può veramente essere considerata moralmente corretta solo un’azione il cui unico obiettivo sia la spinta razionale a fare del bene, senza considerare né le conseguenze né i secondi fini. Ma, anche qui, il punto di vista di Mandeville è esterno: quel che la società, al proprio interno, chiama “morale”, viene ricondotta alle sue origini ed esaminata a partire da esse.
È però il secondo smascheramento ad essere destinato a maggior fortuna. Perché è quello che, in fondo, parla a tutte le epoche, compresa la nostra. Ed è lo smascheramento dell’ipocrisia e dello strabismo dei moralisti. Alcuni predicano società virtuose, ma dimenticano di spiegarne le conseguenze. Chi si illude che possa esistere una società allo stesso tempo prospera e onesta, o è in errore o è in malafede: “non ho mai detto, né immaginato, che l’uomo non possa essere virtuoso tanto in un regno ricco e potente, quanto nella repubblica più meschina; ma riconosco di pensare che nessuna società può divenire un regno ricco e potente, o, divenuta tale, conservare per un tempo considerevole la sua ricchezza e potere, senza i vizi dell’uomo”. 
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Nel 1705 Bernard de Mandeville dà alle stampe una breve favola in versi dal titolo L’alveare scontento, ovvero i bricconi fatti onesti. In essa descrive la vita di una società di api, resa opulenta e prospera dai traffici dei suoi abitanti, ciascuno dei quali si sforza di soddisfare in ogni modo le proprie passioni, guidato esclusivamente dall’interesse privato. Nonostante la prosperità, favorita dall’arte politica dei governanti, le api non la smettono di alimentarsi, ipocritamente, dei vizi che inevitabilmente vi imperversano. Così Giove, esasperato, decide di intervenire, esaudendo il loro desiderio di moralizzazione. Il risultato è che nella nuova società, in cui regnano la frugalità e la temperanza, le attività e i commerci si bloccano, le api si impoveriscono e rimangono in poche, esponendosi alla conquista da parte dei nemici esterni. La morale della favola con cui Mandeville conclude è chiara nel suo significato: «soltanto gli sciocchi cercano di rendere onesto un grande alveare», in quanto ricchezza e virtù sono incompatibili. Nel 1714 Mandeville raccoglie il poemetto con venti lunghe note e il testo Una ricerca sull’origine della virtù morale = An Enquiry into the Origin of Moral Virtue in un volume dal titolo Favola delle api, ovvero vizi privati, pubblici benefici. Questa edizione si apre con una Prefazione (ampliata ulteriormente per l’edizione del 1723) in cui il medico di origine olandese spiega al lettore le ragioni per le quali nel 1705 aveva deciso di scrivere quel breve poemetto.

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