Le lotte per il tempo

Le lancette di ieri e le lancette di oggi

di Andrea Aimar

Nell’iconografia delle lotte del lavoro non lo consideriamo mai. Eppure accanto alle falci, ai martelli, alle bandiere rosse e ai pugni chiusi, ci starebbe bene. No, lo ammetto, non ha lo stesso impatto e il romanticismo di una chiave a stella ma, a suo modo, è in grado di raccontare almeno un secolo e mezzo di conflitti. In una versione aggiornata di Cipputi, lo dovremmo aggiungere un bel cronometro, non so se al polso o appeso al collo.

«Eight Hours for Work, Eight Hours for Rest, Eight Hours for What We Will!». Nelle prime giornate del maggio 1886 la rivendicazione di tempo: ore per riposare e ore libere per fare ciò che si preferisce, fu protagonista dei presidi e dei cortei per le vie di Chicago. Obiettivo ambizioso in un’epoca dove era obbligatorio stare dalle 12 alle 14 ore al lavoro. Come spesso accadrà anche dopo, le reazioni di industriali e polizia non furono tenere. Seguirono scontri e tensioni. Scoppiò una bomba, morì un poliziotto. Ancora oggi non sappiamo chi lanciò l’ordigno, sappiamo però che otto tra operai e sindacalisti furono accusati e condannati alla pena capitale. Pochi anni dopo, il 20 luglio 1889, i partititi socialisti e i movimenti a tutela dei lavoratori di venti Paesi riuniti a Parigi per la fondazione della Seconda Internazionale, decisero che, in memoria dei «martiri di Chicago», il Primo di maggio sarebbe diventato la festa dei lavoratori e delle lavoratrici.

Le battaglie sul tempo non vanno intese solo come lotte per la durata della giornata di lavoro. Dietro alle richieste di riduzione delle ore, si intrecciano infatti i due assi rivendicativi tipici delle lotte operaie: la remunerazione e l’organizzazione del lavoro. Quest’ultima in particolare, ovvero l’esercizio della capacità di controllo sulla definizione delle fasi del proprio lavoro e le modalità (e il tempo) con cui compierlo, è stata la principale molla per la strutturazione di forme di resistenza. Quando il 28 marzo 1920 il movimento operaio torinese incrociò le braccia dando vita allo «Sciopero delle lancette», il collegamento tra questi temi politico-sindacali produsse il suo atto simbolico. Il 13 marzo del 1920 il governo di Francesco Saverio Nitti decise di introdurre l’ora legale in Italia. L’applicazione della novità non fu ben accolta dal movimento operaio. La commissione interna delle Industrie meccaniche della Fiat chiese di continuare a lavorare secondo l’orario solare e, simbolicamente, il 22 marzo spostò indietro le lancette dell’orologio della fabbrica. Seguirono conflitti, scioperi e l’occupazione militare delle fabbriche da parte degli industriali. Al netto dell’epilogo e di un accordo finale che scontenterà parte del movimento, è interessante sottolineare che, dietro il tempo conteso dell’ora legale, emergono i temi del controllo operaio, della democrazia industriale e del bisogno di intervenire, di avere voce, su scelte rilevanti che riguardano da vicino la propria vita.

D’altronde questa tensione è presente, e per certi versi più acuta, già nei decenni precedenti quando l’introduzione del sistema di fabbrica incontra le resistenze di coloro che non intendono adeguarsi alla regolamentazione della vita sociale imposta dall’industria. Le Memorie di classe scritte da Zygmunt Bauman ¹ offrono uno stimolante affresco di quel mondo artigianale e protoindustriale inglese che mal si adegua ai ritmi e ai tempi nuovi che la fabbrica impone. Sono resistenze di uomini e donne abituate a un’organizzazione delle giornate tarata su una propria dimensione comunitaria: parliamo di contadini e di artigiani, di un lavoro a domicilio che si confonde e diventa un tutt’uno con la vita famigliare. Vita spesso grama e schiava di impellenti bisogni di sussistenza ma che si fondava su un importante prerogativa: un grado medio di autonomia rispetto ai tempi e ai modi lavorare. È per questo che la manifattura industriale è vista come un passo verso un’ulteriore restrizione delle proprie libertà. È una storia comune ai mestieri prima dell’industria e spiega le enormi difficoltà incontrate dai primi imprenditori a obbligare operai ed operaie a ciò che oggi ci appare normale routine: l’ingresso e l’uscita dal lavoro secondo orari prestabiliti, nei giorni ordinati.

«All’inizio del XIX secolo i metallurgici delle valli bresciane sono in grado di imporre i propri ritmi di lavoro: astensione sistematica del lavoro il lunedì e all’indomani delle feste, autoriduzione degli orari di lavoro a quattro-cinque ore al giorno, all’arrivo della bella stagione abbandonano le botteghe per darsi alla più redditizia caccia agli uccelli» ². Sempre in terra lombarda, nel nostro immaginario contemporaneo luogo di sudore e lavoro senza lamento, un lavoratore della Bassetti di Rescaldina (Mi) nato nel 1906 e entrato nella fabbrica nel 1918 testimonia come il controllo del tempo fosse il tema principale di conflitto, in particolare l’orario d’ingresso: «Allora fu messa la sveglia e il cartellino. Però gli operai non volevano né sveglia, né cartellino e ci fu uno sciopero di 2-3 giorni, perché non volevano nessun controllo» ³. “Fare il lunedì” è stato per quel periodo di passaggio al sistema industriale uno dei modi con cui rivendicare autonomia e potere di controllo nei confronti dell’imprenditore. Meccanici, tornitori, fonditori di metallo, fabbri ferrai, ebanisti, calzolai, conciapelli, prima della fabbrica “lunediavano”: se ne stavano a casa, niente lavoro. Il lunedì lo usavano per fare compere al mercato e stare nelle osterie. Era una consuetudine ereditata del lavoro artigiano. Per anni il cruccio degli imprenditori è stato di capire come far sì che, dopo il giorno del Signore, in fabbrica ci venisse qualcuno. Col tempo, i regolamenti sempre più duri, la rottura dei legami comunitari di sussistenza complementari al lavoro salariato e l’innovazione tecnica, hanno piegato queste resistenze. Il braccio di ferro iniziato a fine Ottocento ha conosciuto due principali snodi volti a ribadire i rapporti di potere.

Il primo ha un nome e un cognome: Frederick Winslow Taylor. A lui si deve l’ingresso da protagonista del cronometro per misurare con precisione i tempi di ogni singola lavorazione e definire così la “one best way“: il miglior modo per compiere una qualsiasi operazione nel più breve tempo possibile. Il taylorismo è la base per l’organizzazione scientifica del lavoro ed è la summa massima di una lotta per il tempo votata alla Dea della produttività. Il taylorismo è anche la sottrazione “scientifica” della capacità di controllo operaio sulle condizioni tecniche della produzione e la piena assunzione di queste sotto la direzione d’impresa (l’ufficio tempi e metodi). Il vero spostamento dei rapporti di forza nella fabbrica. L’obiettivo da quel momento in poi è ridurre il più possibile i tempi morti, come per esempio espletare i bisogni fisiologici e nutrirsi. Inizia lì la lunga marcia verso la trasformazione degli umani in macchine.

Il secondo snodo non ha un solo nome e cognome ma è rappresentato dal salto di qualità reso necessario dall’emergere di resistenze operaie. Il ciclo di rivendicazioni degli anni Sessanta e Settanta del Novecento racconta il tentativo di insubordinazione dei lavoratori e delle lavoratrici ai ritmi della catena di montaggio. Ecco di nuovo il tempo conteso. Ma, accanto alle repressioni e alle serrate, questa volta la soluzione è nell’automazione, la deduzione è semplice: conviene pensare direttamente a dei robot piuttosto che continuare a tentar di trasformare gli uomini in macchine. Per chi ama i punti fermi nella storia, qui abbiamo una data che segna il prima e il dopo: il 14 ottobre 1980. È il giorno della cosiddetta “marcia dei 40.000”, quello della vittoria delle ragioni della produzione sulle ragioni degli uomini.

Cosa è successo dagli anni Ottanta? Da allora il tempo si è come accelerato. Non solo perché la produttività del lavoro, grazie all’innovazione tecnologica, è continuamente cresciuta ma soprattutto perché abbiamo attraversato un passaggio di ere. Tutti i discorsi e le retoriche hanno di colpo cancellato il lavoro inteso come questione di uomini e donne che faticano. Diventa altro, soprattutto progetto di auto imprenditorialità: il lavoro è ora sinonimo di impresa e viene immerso nella cultura aziendalista. La crescita del capitalismo finanziario e, qui da noi, nell’occidente benestante, l’affermarsi di un’economia dei servizi, imposta l’idea del lavoro nobile, dignitoso (e non più sporco di grasso), come normalità tranquillizzante.

Poi le crisi annunciate e le crepe visibili di un modello di sviluppo economico non sostenibile, costringono il tempo a un rallentamento. Le storie di ieri tornano a riproporsi come storie di oggi. Contribuisce, in parte, la plasticità di un conflitto antico riemerso per un frangente: gennaio 2011, referendum di Mirafiori, Marchionne vs Fiom. Di nuovo operai e operaie al centro e di nuovo loro: i tempi. Quel referendum era tutto su pause tagliate, su minuti preziosi da sottrarre al riposo e consegnare a nuovi obiettivi di produttività. E poi sono emerse, indifferenti alle narrazioni dominanti, le tante stonature nel racconto di una modernità incerta. Accanto a un indubbio miglioramento delle condizioni di lavoro a cui i nostri nonni guarderebbero con invidia, c’è lo sfruttamento antico che torna a farsi notizia. Ci sono gli “irregolari” costretti a lavorare nei nostri campi in condizioni disumane, ci sono appalti e subappalti che costringono a paghe da fame, ci sono i magazzini dove devi confezionare 120 pezzi all’ora seguendo gli ordini impazziti di un server 4, ci sono ancora le fabbriche che continuano la corsa contro il tempo chiedendo agli uomini e alle donne sempre qualcosa in più. E c’è il lavoro moderno, quello intellettuale e della creatività, quello di cui non ci si può lamentare ma che è in grado di invadere i tempi delle vite confondendo il lavoro con il tutto.

E allora, che bello, se a tirare indietro le lancette fossero i facchini, i fattorini, gli autisti della logistica per far impazzire l’algoritmo che ne comanda i minuti e i secondi e far incazzare chi, chiuso nelle case, aspetta con ansia un pacco. Che bello se poi, passata l’incazzatura per il pacco non arrivato, in un momento dove le nostre vite sono immerse in una lunga pausa obbligata, ci fermassimo un attimo a riflettere su questa modernità e sulla necessità di recuperare dalla storia la capacità di fermare il tempo. E magari, chissà, decidessimo di iniziare a anche noi a “fare il lunedì”. In fondo 100 anni fa sono state ottenute le 8 ore e oggi, con una capacità produttiva imparagonabile, siamo sempre lì. Non è che è arrivato il momento di chiedere conto di tutto quel tempo guadagnato?


1 Zygmunt Bauman, Memorie di classe. Preistoria e sopravvivenza di un concetto, Einaudi 1997 (ed. originale 1987).

2 Alain Dewerpe, Genesi protoindustriale di una regione sviluppata: l’Italia settentrionale, in A. Declementi, La società inafferrabile. Protoindustria, città e classi sociali nell’Italia liberale, Edizioni Lavoro 1991, p. 40.

3 Alessandro Pizzorno, Comunità e razionalizzazione. Ricerca sociologica su un caso di sviluppo industriale, Einaudi 1960. P. 388.

4 Chiara Moretti, Lavoro ad Amazon, vi dico tutto, Adnkronos 24/11/2017. Consultato il 26/04/2020.

Un pensiero su “Le lotte per il tempo

  1. Non solo i fattorini, i magazzinieri, gli autisti ma anche noi, i c.d. lavoratori della conoscenza, dovremmo tirare indietro le lancette, riappropriarci del tempo, rimettere in discussione il rapporto tra lavoro e plus-lavoro, ponendo/proponendo un obiettivo politico mondiale: la distribuzione generale del tempo di lavoro

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.